Nel dialogo la verità

1. I significati della verità

Per le cose più belle e importanti della nostra vita ci mancano spesso le parole. Quelle che abbiamo risultano sovente svuotate, abusate, poco credibili. Due di queste sono le parole “verità” e “dialogo”. La prima sembra designare qualcosa di introvabile e al tempo stesso risuona sempre sulle labbra dei fanatici. La seconda viene usata per evocare una situazione buona ma troppo rara, o altrimenti è sospettata di non essere neanche così buona da chi reputa che dialogare porti ad abbassare la guardia nei confronti dei nemici della verità. Insomma, si tratta di due parole in crisi perché spesso ce ne manca un’esperienza concreta, positiva, illuminante. Tanto più che, in effetti, l’una non sta senza l’altra.

Lo scopo della mia relazione è quello di ripensare l’intimo e costitutivo legame di dialogo e verità per riconoscere quale possa essere oggi la direzione del nostro modo di essere e di agire. Dunque per vedere se, in realtà, le parole “dialogo” e “verità” custodiscano tuttora ambiti di senso ospitali per le nostre vite, spazi abitabili e percorribili, essenziali a guarire la convivenza di tutti dalle molteplici dinamiche di distruzione che ancora la aggrediscono. In un percorso del genere il primo passo, a mio avviso, consiste nel ripensare il valore e lo statuto della verità, per poi considerare in che modo il dialogo sia implicato con essa e quale sia la natura dell’incontro dialogico. Se al contrario riconsiderassimo il dialogo lasciando scontata e ovvia la nozione di verità cui siamo abituati, la riflessione si fermerebbe presto nel constatare la rarità, oppure addirittura la pericolosità del dialogo stesso.

Nel riferimento alla verità sussistono più strati semantici. Accenno a questi molteplici livelli di significato non per tentarne un approfondimento, ma solo per tenere presente la complessità del riferimento alla verità e la frequente possibilità di equivoco o di confusione a riguardo. Anzitutto bisogna prendere in esame il concetto di ciò che è effettivamente reale e che va distinto dalla mera apparenza, dall’illusione, dalla menzogna. Questo primo significato si concentra sulla verità percettiva, considerata come la realtà presente e indubitabile, alla quale deve riferirsi oggettivamente chiunque sia ragionevole. In tale ottica verità e realtà coincidono nel costituire quell’unità oggettiva di senso che fa da criterio dirimente per la pluralità dei soggetti che percepiscono, comunicano e argomentano avanzando pretese di validità per le loro affermazioni. La nuda concretezza e la diretta evidenza della verità così intesa evocano l’approdo a un terreno sicuro e stabile, resistente non solo all’ingannevole gioco di specchi del ragionare arbitrario o addirittura in malafede, ma anche alla mutevolezza delle cose causata dall’inesorabile passare del tempo.

Il precisarsi di una simile esigenza di stabilità comporta una specificazione nel modo di intendere la natura della verità. Non si tratta solo di individuare e definire il reale: verità è, propriamente, ciò che è effettivamente reale nel tempo, con una durata e una persistenza nell’identità con sé che non ne permettono lo stravolgimento, la revoca, la fine. Se una certa realtà è vera, lo è per sempre. “Vere” sono allora soltanto le cose che restano uguali a se stesse, immutabili, non manipolabili o alterabili; tutto ciò che muta, che si manifesta e scompare, appartiene a un ordine di realtà inferiore a quello che è effettivamente vero. Comincia a farsi sentire qui la tensione che sussiste non solo tra realtà e verità, inizialmente date per uguali e come sinonimi, ma anche tra gradi diversi di realtà e, rispettivamente, di verità.

Da una parte, infatti, quanto chiamiamo “realtà” potrebbe non coincidere con la “verità”: per esempio la prima potrebbe essere semplicemente la realtà data, il correlato oggettivo della nostra percezione, mentre la seconda fa pensare a qualcosa di essenziale, definitivo, ultimo, che va al di là della “realtà” presente per noi qui e ora. C’è un valore di ultimità nel termine “verità” che non è implicato in molti usi del termine “realtà”. In certi casi la verità potrebbe persino essere rifiutata e scacciata dalla realtà data e presente. La vicenda di Gesù di Nazaret narrata dalla tradizione evangelica può essere presa come un esempio di questa situazione.

D’altra parte, riflettendo sul rapporto di realtà e verità, possiamo accorgerci del fatto che per entrambi ci sono gradi diversi di significato e di esperienza. C’è per esempio una “realtà” dell’apparenza, nella misura in cui questa effettivamente si dà. E c’è invece una realtà più profonda, essenziale, che si avvicina a ciò che propriamente si merita il nome di verità. Ci sono altresì gradi diversi del vero: possiamo riconoscere che effettivamente qualcosa sia vera senza che essa sia la verità in quanto tale. Ad esempio un fatto effettivamente e indubitabilmente accaduto viene riconosciuto di conseguenza come “vero” senza che, per questo, nessuno veda in esso la verità. Inoltre, basta pensare alla possibilità che, senza contraddizione, esistano la verità giudiziaria e quella storica, quella morale e quella metafisica.

L’emergere di tutti questi aspetti, che mostra il crescente complicarsi del riferimento alla verità non appena si inizi a riflettere sulle sue implicazioni, ci chiede intanto di riconoscere la situazione strutturale di tale riferimento. Più la verità è immaginata a sé stante e più le difficoltà si moltiplicano. Si deve piuttosto riconoscere che la verità, da quella più elementare a quella ritenuta ultima e suprema, chiede sempre un rapporto con noi. Questo rapporto è già sempre in atto quando la pensiamo, la nominiamo, ne discutiamo la possibilità, la natura e le forme. Dunque, per orientarsi rispetto alla questione della verità dobbiamo comprendere il più possibile quale sia il rapporto che intratteniamo con essa. Così, ogni volta che poniamo una questione di verità non si deve sfuggire a interrogativi del tipo: dove siamo noi quando avanziamo tali questioni ? Chi siamo ? In quale tipo di relazione ci troviamo rispetto alla verità che stiamo cercando, affermando o negando ? In quale prospettiva ci stiamo collocando ? Più siamo autocoscienti in questo senso e meno confusa, contraddittoria o accecata sarà la nostra comprensione della verità stessa e del suo rapporto con ciò che chiamiamo realtà.

L’allargamento della visuale del pensiero sulla verità sino alla nostra relazione con essa non ne sgretola affatto la consistenza, la credibilità, l’essenza. Anzi, proprio in questa prospettiva diventano rilevanti altri significati. Infatti nel riferimento alla verità vibra l’inquieta memoria umana del mistero della vita e dell’universo. Perciò “verità” per noi non è solo quanto è effettivamente reale ed è tale nel tempo, ma è ciò che è originario e ultimo. La verità percettiva di questo fatto, di quella situazione, di un singolo evento o di un determinato processo è sempre pensabile, in linea di principio, nell’orizzonte della verità metafisica. Ossia di quella verità che, costituendo perennemente la scaturigine e la destinazione del viaggio che noi e il mondo siamo, non rappresenta mai un’entità neutra, una somma di informazioni, una spiegazione o uno stato di cose puramente oggettivo. Ciò che è riconosciuto come originario e ultimo illumina il valore della vita, degli esseri e delle cose, nonché il significato e la direzione del viaggio dell’esistenza.

In un significato ulteriore della verità, pertanto, cogliamo ciò che ha senso e valore e dà ordine armonico alla vita in quanto è la fonte del senso e del valore. Una verità simile ci chiede una responsabilità che è fatta di impegno, lealtà, testimonianza, fedeltà. Qui cominciamo a comprendere che non c’è conoscenza che possa prescindere dalla giustizia verso la verità e nel contempo verso gli altri, come pure nei confronti di noi stessi. La verità ci impegna, ci chiama, ci invita a esistere in uno stile di conformità esistenziale, oltre che intellettuale e cognitiva, a essa, il che non ammette né oppressione né violenza. Infatti l’ “adeguamento” che la verità sollecita agli esseri umani è una forma di ospitalità e di conversione; non si impone con la forza, poiché la verità è tale da poter esistere ed essere riconosciuta senza violenza alcuna. Anzi, quest’ultima la sfigurerebbe: imponendosi con la forza essa dovrebbe alterare la spontaneità, la semplicità, la gratuità, la luminosità originaria del suo essere. La sua specifica “autosufficienza”, che da sempre ha colpito l’immaginazione religiosa e filosofica delle culture in ciò che esse hanno riconosciuto come assoluto. L’assoluto, il sacro, il divino, l’Essere o il Nulla, a seconda delle tradizioni, è tale perché è anzitutto autosufficiente. Ma, a ben vedere, l’autosufficienza dell’assoluto, della “verità assoluta”, è l’indipendenza, la separazione, l’estraneità rispetto alla violenza. Mentre questa è già in sé menzogna, la verità vive liberamente, senza dominio, senza opprimere, e solo dalla libertà onesta del testimone può essere riconosciuta. La negazione della verità non è solo la menzogna, è il male.

Si capisce allora perché, in una ricorrente intuizione di fondo della natura della verità stessa, essa sia concepita infine come ciò che è bene e salvezza, dunque anche come ciò in relazione al quale diveniamo veramente umani e possiamo appunto esistere in verità. I significati precedenti - ciò che è effettivamente reale nel tempo, ciò che è originario e ultimo, essendo la fonte del senso e del valore - sono raccolti e tenuti insieme in quest’idea. La verità è il bene che invita e attrae a conversione, genera liberazione, guarisce anziché distruggere, redime invece di condannare. Come ricorda la sapienza biblica, “misericordia e verità s’incontreranno” (Sal 85, 11), dove l’uso del tempo futuro allude non già al fatto che le due siano eterogenee e per il momento ancora distinte, bensì al fatto che scoprire la loro eterna unità richiede a noi un lungo cammino e un profondo mutamento di sguardo della ragione, del cuore, dell’anima. Non solo la verità non si nega, ma apre alla condizione dei viventi una via di trasfigurazione, di completo riscatto, di rinascita. La verità salva. Per questo, oltre ai tradizionali criteri di verità riconosciuti nella tradizione dell’Occidente - identità, unità e unicità; non contraddizione e coerenza; corrispondenza; consenso - dobbiamo tenere presente essenzialmente il criterio della liberazione, della redenzione e della salvezza, che nel contempo implica quello dell’inveramento del soggetto umano. Anche se il pensiero moderno l’ha spesso dimenticato o l’ha addirittura programmaticamente escluso, dove si cerca seriamente la verità, lì è in questione la salvezza. E la salvezza non è una magia finale che raggiunge soggetti inerti, ma il compimento della condivisione di bene cui ognuno è chiamato sin d’ora. La verità chiede inveramento.

Il problema è che, anziché divenire disponibili al cammino di conversione, di armonizzazione e di rinascita in cui l’inveramento si attua, la tendenza più frequente è quella di ridurre il nostro rapporto con la verità entro la forma del giudizio. Nella postura del soggetto giudicante si ha l’illusione di esercitare potenza: sugli altri, sulla verità stessa, che noi misuriamo e, per così dire, decidiamo, sulla realtà, che pretendiamo di adeguare al nostro giudizio di verità. Quando Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, ironizza sulla figura della “coscienza giudicante” che presume di essere nel vero, nel bene e nel giusto, mette allo scoperto la contraddizione, insieme sprovveduta e astuta, tipica di ogni riduzione della relazione umana con la verità a rappresentazione, il che altro non è se non la diretta riduzione della verità stessa a rappresentazione, dunque la neutralizzazione della relazione in quanto tale. Tutte le difficoltà con il dialogo derivano da questa neutralizzazione. Da Hume a Schopenhauer la filosofia moderna dell’Occidente è stata consapevole degli inganni della rappresentazione, ma non è riuscita a riconoscere una relazione diversa ed effettiva con la verità, per cui il quadro epistemologico che ne è risultato sembra spesso non saper trovare altre vie tra rappresentazioni ingenue e rappresentazioni critiche. Tuttora il passaggio dall’ordine della rappresentazione all’ordine della relazione è arduo anche per la nostra mentalità. E se la coscienza filosofica ha tentato di seguire questa svolta nella sua stagione più recente, la coscienza religiosa ha per lo più assecondato la tendenza non dico a restare nell’ordine della rappresentazione, ma più radicalmente a invertire il movimento. La “religione”, nel senso negativo del termine, s’insedia precisamente lì dove alla relazione con il Dio vivente subentra la sua rappresentazione, in uno scenario che ne cristallizza la figura e irrigidisce anche quella del credente. Chi aderisce alla religione non è più chiamato alla conversione e alla giustizia, ma viene indotto all’obbedire rituale che stende un velo vischioso sulle esistenze inibendo sia l’una che l’altra.

2. Il predominio della rappresentazione

Adottare una nozione rappresentativa e proiettiva di verità significa di fatto muoversi e pensare come se essa fosse semplicemente esterna a noi: un concetto, un dogma, uno scenario esplicativo, una fotografia metafisica. Da un lato, questa costrizione della verità entro lo status di rappresentazione ci dà la comodità di non modificare il nostro stile di esistenza, taglia alla radice la questione dell’inveramento, della conversione, dell’affidamento. Sostituisce alla vera fede, ossia all’affidarsi e alla fiducia che liberamente ogni giorno si rinnova, la certezza risolutiva: la vera spiegazione di tutto è quella che io o noi possediamo. Con ciò abbiamo guadagnato l’immunità rispetto all’azione della verità vivente su di noi. Così il nostro sistema di elaborazione del senso delle cose - che sia di tipo filosofico o di tipo religioso - diviene una struttura di inconversione, cioè di immunizzazione a qualunque svolta, vocazione, rivelazione. Dall’altro lato, siamo autorizzati e legittimati a giudicare e ad attaccare gli altri, o anche, nelle versioni più morali, a tollerarli e persino ad “accoglierli”. Forti del possesso della giusta e autentica fotografia della verità, possiamo combattere con buona coscienza chi pensa diversamente, volerlo assimilare, convertire o escludere. In ogni caso: guai a chi tocca il quadro che ci siamo fatti.

Chi giunge ad accettare l’esigenza del dialogo trattenendosi entro i confini della concezione rappresentativa della verità di solito afferma: si può dialogare solo avendo ben definita e chiara la propria identità. Questa è il dato assoluto e il criterio dirimente, il dialogo è una variabile dipendente. Finché la prospettiva rimane questa, l’incontro dialogico è non solo esterno e secondario rispetto alla verità, ma tendenzialmente pericoloso per la salvaguardia della sua immutabilità. La logica dello scontro di civiltà si radica naturalmente in questa visione. A questo punto sarebbe facile cedere alla retorica che esalta il rinnovamento, il mettersi sempre in cammino, e condanna il dogmatismo di chi si ferma alle sue verità consuete. Sarebbe annegare la riflessione in un luogo comune senza capire le conseguenze della riduzione rappresentativa della verità e anche senza prendere sul serio il fatto che tutti ricadiamo facilmente in essa. Tentando di tenermi lontano da quella retorica, vorrei osservare che la concezione rappresentativa della verità non è neutra, ma porta con sé dei criteri distorcenti e dotati di infauste implicazioni esistenziali, etiche, politiche e religiose.

Il primo è il criterio dell’identità chiusa in sé e già data una volta per tutte, per cui di fatto ogni identità in un certo senso è passata. Tale identità è in effetti un’identificazione, ottenuta con concetti che definiscono, contengono e concludono ciò cui si riferiscono. Costringere se stessi e gli altri entro il disegno identitario delle nostre rappresentazioni è già una violenza, è misconoscere la trascendenza libera e viva della persona umana, della verità stessa, di Dio. Purtroppo il bisogno di stabilità, di ordine e di significati, rafforzato e distorto dalla paura del vuoto, della confusione, della perdita di identità e di senso, ci spinge quasi sempre a pensare secondo il principio dell’identità conclusa, oltre il quale ci sentiamo persi. Per noi percepire e pensare significano identificare in questo modo cristallizzante e risolutivo, cosicché la maturazione o la scoperta di un pensare altrimenti hanno la radicalità di un risveglio e di una rinascita.

Il secondo criterio vigente nella logica della verità come rappresentazione è quello della potenza: la verità è assoluta, vince su ogni altro da sé, si impone e occorre imporla. Si rovescia completamente e si occulta così la luminosa “autosufficienza” della verità, quella consistente nel non aver nulla a che fare con la violenza. Al contrario, ora la verità si fa valere con la potenza e autorizza i suoi seguaci ad agire anche violentemente, se necessario. La violenza, da questo punto di vista, non è neppure più un’eccezione o una extrema ratio, perché è già connaturata alla perfetta fedeltà del credente. Si noti la vocazione peculiarmente religiosa di questo criterio: è la divinità che rappresenta la potenza suprema e a chiunque la incarni (lo Stato, il Partito, il Capo, il Mercato) si obbedisce come a un dio. L’uomo religioso non crede in Dio, crede nella Potenza. Se c’è un Dio non può che essere l’Onnipotente. La religione e l’ateismo, nelle loro versioni tradizionali, pensano a un’entità di questo genere. La verità immaginata come potenza stabilisce e chiede un pensiero gerarchico: alto-basso, soggetto-oggetto, maschile-femminile. Il rapporto alla verità esige sottomissione. Di qui non solo l’assolutismo cognitivo (nelle forme dell’integrismo e del fondamentalismo), ma anche il relativismo, che mantiene la stessa nozione, con la differenza che esso dispera di poter raggiungere la verità.

Il terzo criterio è quello della proprietà. Di fatto questa verità è tanto dichiarata suprema e assoluta, quanto trattata appunto come oggetto di proprietà: la nostra verità o il nostro Dio. E’ un’ottica per cui l’unicità della verità si tramuta nell’esclusività del nostro impossessamento. La proprietà permette il controllo. Ciò soddisfa la ricorrente aspirazione a misurare la verità stessa e a controllare anche la vita di tutti attraverso il giudizio, passo per passo. Qui si deve notare come l’aver eluso o ignorato la dinamica della relazione conduca a criteri che a essa sono alternativi e antitetici. Mentre chi accetta l’essere in relazione e lo alimenta volentieri sa che la fiducia è un fattore essenziale per vivere bene con gli altri, l’uomo della potenza e della verità chiusa in una mera rappresentazione, per così dire, non si fida della fiducia. Piuttosto confida nella sovranità conferitagli dalla proprietà. Avere titolo di possesso su qualcosa vuol dire poterne disporre senza incertezze e senza sorprese, essere forti e sicuri del proprio senza dover dipendere o dover attendere da altri. Immobilizzare la verità nella proprietà permette ai suoi presunti difensori di costruire la loro esistenza nel modo che preferiscono e di essere sempre legittimati nel farlo. E’ chiaro che il senso della proprietà alimenta sovente la disponibilità alla rivalità, allo scontro e anche alla conquista nei confronti di chi è considerato una minaccia o anche, in altra ottica, una preda.

Abbiamo infine il criterio del sacrificio: l’esito della concezione rappresentativa della verità sta appunto nell’affermarsi della logica sacrificale come forma normale delle esistenze e della convivenza. E’ infatti in questo scenario che emerge una verità pronta a sacrificare l’essere umano a sé. D’altra parte, con un rovesciamento fatale e ricorrente, per dare corso a questa stessa visione delle cose l’uomo giunge poi a sacrificare la verità stessa. La menzogna della violenza diviene il cuore della razionalità, della morale, dei sistemi organizzativi della vita comune. La distruzione di tutto quello che sembra d’intralcio alla vittoria della verità - anzitutto i nemici, i dissidenti, gli eretici, gli infedeli - viene assunta come un compito indispensabile e glorioso per gli autentici testimoni e i credenti fedeli. La semantica del sacrificio garantisce la sublimazione morale e religiosa della violenza dando indiscussa credibilità alla perversione, sottile e abissale, per cui anziché essere l’amore generoso e gratuito a “portare”, se necessario, la sofferenza, cioè a prenderla su di sé per attraversarla, è la violenza sacrificale inflitta agli altri, e in qualche maniera anche a noi stessi, a renderci meritevoli d’amore. Così la naturale nonviolenza della verità è del tutto oscurata, mentre il perseguimento del bene viene legato a modi d’essere, di agire e di convivere fondati sulla distruzione, giacché il sacrificio prevede sempre la negazione violenta di ciò che è vivo e ha valore. Questa figura distorta della verità divide sempre gli uomini: essi si sacrificano tra loro in suo nome. Per la verità si uccide.

Identità conclusa, potenza, proprietà e sacrificio sono i quattro pilastri di ogni cultura o religione ideologicamente chiusa nelle proprie rappresentazioni della verità. Non appena si considera quanto questi nuclei semantici siano efficaci, diffusi e culturalmente centrali anche nella società attuale, oltre che a disporre di una chiave per leggere il passato e il presente, si possono immaginare con sgomento sin d’ora le prevedibili conseguenze per l’avvenire. Come cercare una via profondamente diversa, onesta e pacifica ? Come uscire da questo delirio ? Allorché si desidera sinceramente un orizzonte alternativo subito si prefigura il dialogo, con le sue possibilità aperte, inedite, risanatrici.

Prima però di cogliere almeno qualche nucleo essenziale della dinamica dialogica occorre precisare che nella critica della concezione rappresentativa della verità non è la rappresentazione in sé a costituire un male. Pensare significa abitare il colloquio interiore con sé e con il mondo, ascoltare e rispondere, contemplare e scegliere, accogliere e rielaborare. Ma significa anche sempre, in certa misura, rappresentare, immaginare, raffigurarsi scenari, seguire un orizzonte. E tutti noi abbiamo bisogno di racconti riassuntivi, di sintesi, di narrazioni del senso delle cose. Quindi non si tratta di giungere all’abbandono delle rappresentazioni in quanto tali, cosa che rimane impossibile e che non è neppure desiderabile. Anzi, dovendo avere cura del pensare, dobbiamo pure avere cura delle rappresentazioni e delle elaborazioni concettuali in modo che si mantengano al servizio della trascendenza della verità e della vita, con tutte le relazioni di cui è intessuta. In fondo il consegnarsi a un sistema di rappresentazioni sostitutive denota, tra l’altro, oltre alla paura di esporsi all’alterità, una grande pigrizia intellettuale, un’incapacità a esprimere la creatività del pensiero, che resta uno di quei tratti meravigliosi della nostra umanità che l’azione stessa della verità su di noi induce a sviluppare. Il problema sta in quella caduta di esperienza, di ricerca, di apertura esistenziale e cognitiva per cui la rappresentazione finisce per sostituirsi alla relazione con la verità vivente. Pericolosa è non la rappresentazione come tale, ma la rappresentazione sostitutiva. Se si tiene conto di questo, si comprende come l’evento dell’incontro dialogico sia l’antidoto che fluidifica e rinnova le rappresentazioni, mantenendole al servizio della trascendenza della verità e della sua universalità.

3. La via del dialogo

Finché siamo culturalmente sommersi dalla visione proiettiva della verità, la sorte del dialogo oscilla tra il costituire un pericoloso cedimento alla non verità degli altri e l’essere un luogo di comunicazione concessa loro per la necessità pratica di convivere e di preparare intanto le condizioni per una futura vittoria della nostra verità. Il dialogo autentico invece, anziché ridursi a una qualsiasi conversazione, è l’esperienza stessa della ricerca della verità che si attua in una condivisione del senso. La ricerca non avviene per pura decisione dei soggetti coinvolti, ma in realtà perché al dialogo si è convocati dalla verità stessa. Dalla sua assenza, dal suo silenzio, dai conflitti suscitati dal suo mancato riconoscimento, ma anche dalle esperienze in cui essa si rivela e ci sollecita a trasfigurare l’esistenza. Il dialogo non comincia da noi. Noi, che siamo già sempre in relazione con la verità e con il mondo, vi accediamo deliberatamente come in un risveglio, grazie a una risposta, a una responsabilità costitutiva del nostro essere. Il silenzio, l’ascolto, la parola, il pensare e il sentire, lo stile di relazione e il modo di esistere ne sono trasformati. In tale ricerca si apre inatteso l’evento rivelativo di un incontro onnilaterale: con gli altri, con la verità, con noi stessi, con la vita.

Quando un dialogo effettivo accade, è proprio la rappresentazione proiettiva della verità a disgregarsi e si aprono spazi inediti di conoscenza, di esistenza e di convivenza. La nostra continuità di pensiero e di modo di vita è interrotta, così lo sono le nostre rappresentazioni e tradizioni: il dialogo accade come interruzione da parte di chi è altro e da parte della verità stessa. La disponibilità al dialogo comporta di accettare di buon grado di essere interrotti e interpellati dall’incontro. Nello spiraglio che ci accade di lasciare all’imponderabile e alla novità dell’interlocutore sperimentiamo non solo la ricchezza dell’essere concretamente in relazione, ma anche una dilatazione della nostra esperienza della verità. Impariamo allora quanto fosse inadeguata e fuori luogo la pretesa di possedere la verità o anche solo di misurarla. Da essa siamo ospitati, ci muoviamo nel suo orizzonte senza poterlo mai contenere nel nostro sguardo.

Rendersi conto di questa situazione porta a comprendere come, dialogando con qualcuno, non solo e non tanto parliamo sulla o della verità, quanto dialoghiamo con lei. Il dialogo è la dinamica di scoperta del fatto che la verità è viva, non è un oggetto o un concetto a disposizione del nostro arbitrio. E’ proprio lei che ci convoca al confronto dialogico e che in esso si rivela. Il dialogo è l’evento dell’incontro cosciente con la verità vivente: per questo esso non è mai a due - tra me e l’altro -, ma sempre almeno a tre: l’altro, io, la verità viva e libera. A ben vedere, non è neppure soltanto a tre. E’ un incontro virtualmente onnilaterale proprio perché apre uno spazio da cui nessuno può essere escluso e chiede di rigenerare le condizioni della convivenza. Il dialogo è in ogni caso anche per altri, implicato nella responsabilità della vita comune; non sopporta l’iniquità, è impegnato alla fedeltà nei confronti di una verità che chiede giustizia, una giustizia che non comporti lesioni alla dignità umana e che non produca vittime. Dialogo è corresponsabilità per la liberazione. Non c’è dialogo autentico senza impegno verso questa “giustizia più grande” (Mt 5, 20) di tutte le forme di giustizia che restano unilaterali, sacrificali, vendicative.

Quanto la relazione dialogica sia alternativa alla violenza, all’oppressione e all’ingiustizia è facilmente visibile. Vorrei però richiamare l’attenzione sul fatto che nel cammino del dialogo si impara a passare dalla rappresentazione conclusa ed escludente alla trasformazione di sé, dal dominio alla corresponsabilità, dal fanatismo all’umile testimonianza dell’azione nonviolenta e feconda. I criteri dell’identità chiusa, della potenza, della proprietà e del sacrificio cedono il passo a criteri di discernimento, di conoscenza, di esistenza e di convivenza completamente diversi.

In luogo del criterio dell’identità conclusa, emerge la futurità di ogni identità e della verità stessa. Poiché essa non è passata, nessuno può recintarla e impossessarsene. L’essenziale allora non è la definizione, ma la partecipazione alla verità, l’ospitalità che le accordiamo, in modo che questa ci trasforma. Perché noi stessi non siamo definiti e compiuti. Non si tratta solo di mantenere aperte le nostre rappresentazioni; più radicalmente, si tratta di ascoltare l’invito della verità vivente a nascere del tutto. E’ lei che ci apre il cammino della vita e della sua trasfigurazione. E ciò accade secondo un dinamismo di reciprocità per cui seguire la vocazione della verità, che ci spinge a nascere compiutamente, significa permettere a un frammento di verità di venire alla luce attraverso di noi. Oltre alla consapevolezza già emersa con la tradizione socratico-platonica e con le teologie della rinascita in molte fedi e culture del mondo, il pensiero maieutico contemporaneo - da Mohandas K. Gandhi ad Aldo Capitini, da Martin Buber a Emmanuel Levinas, da Gabriel Marcel a María Zambrano - ha attestato che qui è in gioco una sorta di passione e azione maieutiche asimmetriche ma reciproche, per le quali noi nasciamo alla verità e grazie a lei, e questa viene al mondo, in un frammento unico, attraverso la trasformazione del nostro essere. Ed è in questo cammino che ha il suo luogo l’impegno etico cruciale: aiutare altri a nascere, prendersi cura della vita degli altri, poiché ogni nascita chiede una cura continua, mai un abbandono.

Sulla critica e sull’alternativa al concetto di identità conclusa desidero soffermarmi poiché mi sembra particolarmente diffuso nella mentalità di molti. Merita speciale attenzione, in proposito, il fatto che nel dialogo ciascuno può condividere con gli interlocutori non solo ciò che pensa, ma ciò che in lui o in lei è già una forma di risposta alla verità. Voglio dire che, se quest’ultima non è soltanto esterna alla soggettività umana, ma la abita e la invita a prendere una sua forma originale man mano che risponde alla vita e alla verità stessa, dialogando possiamo arrivare a porre in confluenza modi d’essere e di pensare che in frammento sono il frutto della silenziosa presenza della verità, o di Dio, usando le parole della fede, in ognuno. La verità o la realtà divina non sono solamente un orizzonte o un interlocutore esterno. Sono ospitate nel nostro essere e possono venire alla luce se e nella misura in cui le risposte quotidiane che diamo a queste segrete presenze, ai fatti della vita, agli altri e a noi stessi plasmano giorno per giorno una forma di soggettività originale e unica la cui umanità giunge a piena consonanza (starei per dire: a compiuta figliolanza) con la verità o con la realtà divina. E’ come dire che nel dialogo autentico condividiamo ciò che siamo e, in ciò che siamo, qualcosa dell’ospite segreto che è in noi. Inoltre, attraverso l’atteggiamento ospitale e creativo del dialogo, la nostra soggettività è progressivamente plasmata in maniera da divenire sempre più fedele alla verità o alla realtà divina.

Questo discorso riguarda chiaramente solo le possibilità tipiche del cammino dialogico della soggettività umana nel suo sviluppo e nell’esperienza della verità, ferma restando la consapevolezza del fatto che non ci sono automatismi positivi o garanzie di riuscita, per cui spesso ci troviamo a viver semplici tentativi di dialogo e anche molti fallimenti. Nondimeno, l’attendibilità di tale prospettiva è attestata dalla natura magnetica dei dinamismi dell’umanizzazione. L’altro giorno, un collega molto influente nella mia università mi ha detto: “gli uomini camminano con i soldi”. In realtà, gli esseri umani si muovono sempre per attrazione, partecipando a un campo magnetico che li attira verso una meta di valore. Che il denaro rappresenti il valore attrattivo più frequente indica solo la gravità del nostro delirio, in un dispositivo di prigionia che già la Bibbia chiama idolatria. Invece l’attrazione che la verità esercita su di noi, aprendo di continuo lo spazio del dialogo, è molto diversa; può essere riconosciuta in una promessa.

Parlo di promessa non soltanto in riferimento alla tradizione biblica, dove questo è chiaro e sempre riconfermato, ma anche antropologicamente e ontologicamente, per il fatto che la nuda vita creaturale esprime già, nell’aspirazione alla liberazione e alla trasfigurazione - non certo alla mera sopravvivenza - che sempre è inscritta in essa, il riferimento a un compimento che non sia né la morte, né il patire, né il male. Quando, in una delle folgorazioni fissate nelle lettere dal carcere, Bonhoeffer scrive che il concetto greco di senso ha il suo corrispettivo biblico nella promessa non indica qualcosa che può valere per i credenti ebrei e cristiani, ma per ogni essere umano e, in un certo modo, per tutti i viventi. Esiste una promessa di compimento che è immanente alla condizione creaturale e umana; la verità è origine, orizzonte e interlocutrice del dialogo anche e proprio perché ci invita attraverso questa promessa. L’esperienza della dignità che ci costituisce comprova ontologicamente e nella carne di ciascuno questa condizione. Queste osservazioni ci accompagnano ormai a esplicitare, seppure più brevemente, anche le alternative ai criteri, prima richiamati, della potenza, della proprietà e del sacrificio.

In luogo del criterio della potenza e della gerarchia emerge il criterio micrologico della pietra scartata: ciò che è umile e umiliato, ciò che è trascurato, scartato e travolto, costituisce un valore vivente e irrinunciabilmente prezioso. La fragile libertà di ognuno, il destino dolente di ogni creatura sono preziosi in verità, o, si può dire, agli occhi di Dio. Perciò non esiste una verità che implichi umiliazione, disprezzo, esclusione, dominio, distruzione. Né esiste una verità che chieda l’ammirazione per la potenza, la subordinazione a essa o il suo esercizio. La verità chiede libertà, la responsabilità di chi ha ricevuto un dono e solo liberamente può ricomunicarlo condividerlo. La verità chiede alla libertà di ognuno la fedeltà che si attua nel servizio fraterno e sororale, chiede compassione e ospitalità. Non serve a vincere, la verità. Se si può dire che “serve”, serve a convivere in modo che la vita di tutti sia compiuta.

In luogo del criterio della proprietà, emerge non solo l’esigenza della solidarietà e dell’apertura nel cammino del dialogo, ma il dato escatologico per cui la verità vivente è la Comunione con l’umanità e con il mondo, realtà cosmoteandrica pienamente liberata, direbbe Raimon Panikkar. La verità non resta separata, presso di sé, per ricacciare l’altro da sé nel buio della non verità e dell’irrilevanza. Dio, umanità e mondo si ritrovano senza più alcuna ombra di male: la verità, infine, è un abbraccio. Allo stesso modo non è nostra proprietà o, come si dice nel linguaggio ecclesiale abituale, nostra “missione” il dialogo: può capitare che ci sentiamo portatori del dialogo e spesso ci chiediamo come far dialogare gli altri; invece si tratta di accogliere il dialogo e di confermarlo con fedeltà a partire da noi stessi, senza rivendicare una reciprocità formale e contrattuale per cui mi comporto dialogicamente solo se l’altro fa altrettanto. Si pensi alla grande narrazione biblica della storia tra Dio e l’umanità: se l’Eterno avesse preteso questa reciprocità contrattualista con noi saremmo stati spacciati fin dall’inizio.

In luogo del criterio del sacrificio, infine, risplende la misericordia. E’ l’esperienza rivelativa e maieutica della verità a sottrarci dalle trappole sacrificali interiori, interpersonali, sociali, politiche, economiche e soprattutto religiose con cui ci neghiamo e neghiamo agli altri la felicità. E questa liberazione radicale, che porta dal sacrificio al perdono accolto e comunicato, al dono di sé e alla condivisione, non riguarda solo il modo di convivere, riguarda direttamente il volto della verità, il volto di Dio. Abraham J. Heschel ha sottolineato che noi ci orientiamo con la ragione cercando di trovare senso a ciò che è mistero, dunque a Dio stesso. Ma proprio il Dio vivente riapre questa dialettica: oltre la ragione c’è sì il mistero, ma oltre il mistero c’è la Misericordia.

Accogliere su di sé questo amore incondizionato, generoso, fedele, paziente, significa entrare nel grado realtà più profondo non solo della fede, ma appunto del vero dialogo. Non c’è dialogo senza misericordia accolta e ricomunicata. Il che vuol dire che il dialogo stesso è il processo di trasfigurazione cui allude il comandamento dell’amore per i nemici: non solo rispondere con il bene al nemico, avere benevolenza per lui in quanto nemico, ma avviare la dissoluzione del rapporto di ostilità. L’altro, per quanto minaccioso e aggressivo, non viene più considerato come il nemico, è un fratello, una sorella.

Conclusione

Per chi consideri queste cose dall’interno della tradizione cristiana è evidente, a mio avviso, che nel contesto attuale il pericolo è quello di tradire la verità mentre si afferma di onorarla e di diffonderla. Non ci si può arroccare, come Chiesa, entro una visione rappresentativa e proiettiva della verità stessa impegnando battaglia contro i nemici ideologici - secolarismo, illuminismo, relativismo - e lasciando in pace invece il sistema globale di iniquità che grava sul mondo. Si tratta invece di accettare l’interruzione della verità, della Parola di Dio, di fare silenzio, di ascoltare il grido dei respinti della storia presente e di non coprire le loro grida con le nostre rappresentazioni di dialogo o addirittura di “provocazione” agli altri perché si convertano alla nostra verità o magari alla nostra morale. Si tratta di ritrovare, lungo la via del dialogo, l’impegno per la giustizia più grande cui prima si è accennato.

L’alternativa non è quella tra universalismo ideologico-moralista e rimozione della fede cristiana in nome della concordia con gli altri; l’alternativa è quella tra la complicità con le iniquità di un mondo sordo a qualsiasi vera promessa e l’esistenza cristologica: quella che, senza rivendicare alcuna proprietà sulla verità, rende trasparente in se stessa il dialogo di Dio con ogni sua figlia e con ogni suo figlio; quella che propone non la credenza in un dogma e in una morale come verità ultima, ma la credibilità gioiosa della figliolanza con Dio sulla base di un esistere comunitario aperto, umile, ospitale; quella che comunica a tutti la misericordia come nucleo della giustizia. Non una giustizia penale o puramente retributiva, ma una giustizia restitutiva, che restituendo diritti e futuro toglie persone e popoli dall’inferno dell’iniquità. Di qui un vero e proprio esodo: dall’insediamento della Chiesa nella civiltà e nell’ideologia occidentale al portarsi sui confini delle contraddizioni più gravi, dolorose e vittimarie per essere umile strumento di liberazione.

Ogni nuovo evento di comunione segna la dilatazione della nostra comprensione e della nostra conformazione alla verità. Per questo alla Chiesa oggi serve non un progetto culturale di riconquista delle coscienze, non una vittoria dell’Occidente, non la perpetuazione dell’ennesimo centrismo esistenziale, morale e politico, ma una rinnovata autocomprensione, uno sguardo non più intriso di paura, un agire generoso che segni il passaggio dalla rappresentazione alla relazione con la verità nonviolenta e liberatrice. Ci serve forse un nuovo Concilio, il Concilio dei poveri per lo Spirito (Mt 5, 3), di quanti cioè sono pronti a portare la loro speranza, dunque la memoria della promessa divina, a confluenza con la speranza dell’umanità dispersa, frantumata in nazioni, ideologie, appartenenze ostili. Il dovere, la passione e la vocazione del dialogo oggi si traducono in questo condividere speranza nei processi vitali della società, lasciando che gli eventi di restituzione della giustizia e di liberazione siano i criteri di discernimento con cui la verità stessa potrà attestarci, allora, che non siamo lontani dal Regno di Dio.

Roberto Mancini

Su questo livello semantico dell’idea di verità rimando alle osservazioni da me proposte nel saggio Die Idee der Wahrheit in transzendentalpragmatischer Sicht, in A. Dorschel (Hrsg.), Transzendentalpragmatik, Frankfurt, Suhrkamp, 1993, pp. 118-136.

Si veda la voce Verità sia nel volume di AA.VV., Concetti fondamentali di filosofia, Brescia, Queriniana, 1984, vol. III, pp. 2316-2337, sia nell’Enciclopedia filosofica, a cura della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, Milano, Bompiani, 2006, vol. 12, pp. 12049-12071.

Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1973, vol. II, pp. 162-196; in merito si veda lo studio di F. Falappa, Il cuore della ragione. Dialettiche dell’amore e del perdono in Hegel, Assisi, Cittadella editrice, 2006.

In merito rimando al mio studio L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Napoli, E.S.I., 1995.

Per un approfondimento sulla natura del pensare rimando a quanto ho proposto nel libro Il silenzio via verso la vita, Magnano, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, 2002, pp. 113-135.

Per una presentazione di questa prospettiva rinvio al mio libro Esistere nascendo, Troina, Città Aperta Edizioni, 2007.

D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, p. 475.

Cfr. R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica, Milano, Jaca Book, 2004.

Per restare alla tradizione biblica dovremmo rimeditare la rivelazione condensata eppure chiarissima in Os 6, 6, Mt 9, 13 e 12, 7.

Cfr. A. J. Heschel, Dio in cerca dell’uomo, Roma, Borla, 1983, pp. 379-380.